La piantata padana e un paesaggio che non c'é più: breve racconto sui "mariti" della vite - WOWnature
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La piantata padana e un paesaggio che non c’é più: breve racconto sui “mariti” della vite

Alcuni decenni fa non esistevano i vigneti come li conosciamo oggi: la vite faceva parte di un “sistema eterogeneo” nel quale l’uva non era l’unico frutto coltivato e raccolto. Passato alla storia con il nome di “piantata padana” questo sistema si concretizzava con la collocazione, ai bordi del terreno destinato alla coltivazione di cereali, di viti che venivano “maritate” con alberi come l’olmo, l’acero campestre, il salice, il pioppo, il gelso ma anche a qualche albero da frutto, come il ciliegio o il pero. La piantata padana è praticamente scomparsa dai paesaggi della pianura padana ma questo sistema ha una storia antichissima.

Le origini della “piantata padana” o “vite maritata”

Il museo etnografico di Stanghella custodisce un documento di inestimabile valore che racconta la storia della BassaPadovana: è la “Mappa del Retratto del Gorzon”. Si tratta di un’imponente mappa catastale realizzata nel Cinquecento su incarico della Serenissima Repubblica di Venezia, ancora oggi perfettamente conservata, che “fotografa” il territorio da Montagnana ad Anguillara Veneta prima della bonifica veneziana del ‘500 e descrive in maniera dettagliata le varie colture, i vasti laghi, le paludi, i villaggi che formavano parte del territorio della Pianura Padana.

La Mappa del Retratto del Gorzon di Stanghella

La grande “Carta del Gorzon”, nonostante i suoi quattrocento anni di età, rappresenta in maniera precisa l’idrografia e l’uso del suolo a quel tempo; quando non era occupato dall’acqua il terreno era destinato in gran parte alla viticultura, coprendo quasi il 30% dell’intero territorio allora disponibile ovvero quasi quattro volte la terra destinata alle colture di cereali. Considerate questo: oggi, nella stessa area presa in considerazione dalla carta, la superficie destinata alla viticoltura rappresenta solo lo 0,81%.
Ma le origini della vite maritata risalgono a più di 3.000 anni fa, al tempo degli Etruschiche coltivavano le viti come le vedevano crescere spontaneamente nei boschi. La vite è un arbusto rampicante, una specie di “liana” ed un bosco, il suo ambiente naturale alle nostre latitudini, tende ad arrampicarsi su un albero per raggiungere il più possibile la luce. Non è però una specie parassita: la vite non interferisce con l’albero su cui s’aggrappa. Troviamo testimonianze della piantata padana anche in epoche successive: dall’Impero Romano, passando per il Medioevo e fino ai giorni nostri. Testimonianze che troviamo in numerosi manufatti artistici e dipinti di ogni epoca e di varie correnti artistiche.

Molto importante anche il legname che si poteva ricavare dalla vite maritata, legname con il quale l’agricoltore poteva gestire al meglio le caratteristiche del suolo ma anche diversificare gli introiti generati dalle coltivazioni. Alberi gentili come il salice o il pioppo servivano ad “asciugare” il terreno mentre alberi pregiati come il noce, forniva legname per realizzare mobili e arredi; da alberi forti e da cima come la farnia venivano le prodotte travi.

 

Gli alberi “maritati” con la vite

Gli alberi maritati alle viti maggiormente utilizzati potevano appartenere alle specie dolci, come a quelle così dette forti. Il primo gruppo comprendeva piante di rapido accrescimento, adatte a terreni freschi, come il salgàro (salice bianco) e àlbare e pògolo (pioppi). Il salice, se da una parte sviluppava poche radici, dall’altra tendeva a formare una chioma piuttosto ampia, che tuttavia bisognava contenere mediante la capitozzatura; inoltre, si riteneva che comunicasse all’uva anche un gusto spiacevole, chiamato “da salgarìn”.

Alle essenze forti appartenevano l’olmol’òpiol’orno o altàn (orniello). Gruppo a parte facevano il moràro o morèr (gelso), soprattutto quello bianco, e la nogàra o noghèra (noce), essendo questi alberi da frutto. Come possibili ‘mariti’ si presentavano, sia pure raramente a differenza della collina in cui erano frequenti, anche altri alberi da frutto, come l’amolàro (pruno domestico), la sarezàra (ciliegio dolce) e marinelàra (ciliegio aspro) e pochi altri.

 

L’arrivo dell’agricoltura “moderna” e la scomparsa della vite maritata: deforestazione e bonifica

Le opere di deforestazione e bonifica attuate dal XII secolo in poi fecero lentamente sparire quasi del tutto il sistema della vite maritata che rimase comunque utilizzato fino all’epoca recente. Alcuni accusarono la malattia dell’olmo per spiegare le cause della scomparsa della “piantata”; in realtà, l’inserimento delle macchine agricole sempre più moderne è il vero motivo del declino di questa coltura. La necessità di lavorare il terreno con macchine sempre più grosse e potenti portò ad eliminare gli “ostacoli” costituiti dagli alberi maritati con la vite, mentre il sempre più esteso utilizzo di mangimi artificiali vanificò le produzioni di foglie ed erbe che essenziali per l’allevamento degli animali. Macchine agricole e trattori hanno dunque iniziato a modificare il nostro paesaggio che conobbe una radicale trasformazione; nella bassa padovana è ancora possibile imbattersi in qualche esempio di “piantata padana”: poche testimonianze che dovrebbero essere considerate alla stessa stregua di un’opera d’arte, un monumento a quella abilità artigiana contadina che sapeva utilizzare sistemi razionali per l’utilizzo del suolo e delle colture.

 

“Fili d’arbore – scriveva alla metà Seicento il Tanara – o piante che sostentano le viti: con questi non s’occupa o impedisce parte alcuna di terreno che non si possi lavorare e cavarne frutto; anzi dallo stesso lavorare che per altrui si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui (gli alberi) mantengono e sostentano la vite, e col mezzo di questi le allunghi e dilati tanto, che rende più un  lo di questi arbori, o due nella piantata bene aiutata che non fa una vigna, porgono ancora dilettazione alla vista e servono di comodità di separare un campo dall’altro…”.

 
 

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